L'IMPRESA FAMILIARE

L'IMPRESA FAMILIARE NELLE NORME DEL CODICE CIVILE E IN QUELLE DEL DIRITTO TRIBUTARIO

Aggiornato al 17.03.2007

L’impresa familiare è un’impresa individuale caratterizzata dalla collaborazione dei familiari dell’imprenditore.

Il Codice civile richiede la presenza di requisiti ben precisi affinché sia configurabile l’ipotesi dell’impresa familiare: ciò sia in merito al tipo dell’opera prestata, sia al concetto di familiare.

La nozione di impresa familiare sotto il profilo civilistico e sotto quello fiscale non sono del tutto simili, come vedremo in seguito.

L’istituto dell’impresa familiare è disciplinato nell’art. 230 bis del Codice civile. Secondo tale articolo si può parlare di impresa familiare quando il familiare presta la sua attività di lavoro in modo continuativo nell’impresa o nella famiglia.

Il lavoro prestato dal familiare, quindi, deve essere continuativo il che esclude che si possa parlare di impresa familiare nel caso in cui il familiare presti la propria attività di lavoro in modo occasionale nell’impresa o nella famiglia.

Invece, per il Codice civile, è indifferente che l’attività di lavoro del familiare sia svolta all’interno dell’azienda o all’interno della famiglia.

Va rilevato, però, che in entrambi i casi si può parlare di impresa familiare solamente se non è configurabile un diverso tipo di rapporto, come ad esempio nel caso di rapporto di lavoro subordinato.

Per quanto concerne il concetto di familiare con questa espressione si intendono: il coniuge, i parenti entro il terzo grado (ad esempio: figli, genitori, fratelli, nonni, ecc..) e gli affini entro il secondo grado (ad esempio: suoceri, nuore, generi, cognati).

Il familiare che partecipa all’impresa familiare ha una serie di diritti. Essi possono essere distinti in diritti di natura economica ed altri diritti.

I diritti di natura economica riconosciuti al familiare sono:

  • il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;

  • il diritto a partecipare agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento. Il tutto in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.


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Gli altri diritti, diversi da quelli di natura economica, riconosciuti al familiare sono:

  • il diritto di intervenire nelle decisioni relative l’impiego degli utili e degli incrementi del patrimonio aziendale;

  • il diritto di partecipare alle decisioni relative alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa;

  • il diritto di essere preferiti a terzi in caso di cessione dell’azienda;

  • il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria.


Nonostante il legislatore abbia previsto la possibilità dei familiari di intervenire su alcune decisioni relative alla vita dell’impresa, non ha voluto prevedere un’azienda gestita da più persone. Infatti l’impresa familiare è sempre un’impresa individuale, nella quale le decisioni sono prese dall’imprenditore che rimane anche l’unico che assume il rischio derivante dall’esercizio dell’impresa.

Infatti, in caso di insolvenza dell’impresa l’unico soggetto passibile di fallimento rimane l’imprenditore. Questa conclusione è sottolineata dal fatto che la disposizione di legge prevede una partecipazione agli utili dei familiari, ma non una partecipazione alle perdite.

Questo vuol dire che nei confronti dei terzi, l’impresa familiare rimane un’impresa individuale e la sua disciplina ha soprattutto come finalità quella di garantire ai familiari, che prestano il loro lavoro nell’impresa o nella famiglia, la possibilità di intervenire nelle scelte aziendali in caso di situazioni di straordinaria amministrazione, legate a momenti particolari della vita dell’impresa che si ripercuotono spesso anche sulla vita della famiglia.

L’impresa familiare, inoltre, è un istituto ben diverso rispetto all’impresa coniugale, detta anche cogestita. Quest’ultima è, infatti, un’azienda condotta da entrambi i coniugi, i quali assumono ambedue la qualifica di imprenditori, prendono insieme le decisioni inerenti l’impresa e partecipano nella stessa misura agli utili e alle perdite dell’azienda, e quindi, sono entrambi passibili di fallimento.

In parte diversa è la disciplina fiscale dell’impresa familiare: come spesso accade il fisco richiede dei requisiti maggiori rispetto alla norma civilistica.

Così il lavoro del collaboratore all’interno dell’azienda deve essere non solo continuativo, come richiede il Codice civile, ma anche prevalente. Questo significa che l’attività di collaboratore nell’impresa familiare deve prevalere su qualsiasi altra attività lavorativa. Quindi non possono essere collaboratori coloro che svolgono in modo continuativo attività di lavoro dipendente, autonomo o d‘impresa, mentre possono esserlo i pensionati.

Altra restrizione prevista dalla normativa fiscale è che il lavoro dei collaboratori deve essere prestato nell’impresa familiare: non ha valore ai fini fiscali il lavoro prestato nella famiglia.

Anche secondo le norme fiscali, come per quelle civilistiche, la partecipazione al reddito deve essere proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro prestato nell’impresa dal collaboratore, ma il fisco aggiunge che le quote spettanti a tutti i collaboratori non possono in ogni caso superare, ai fini fiscali, il 49% degli utili conseguiti dall’impresa. Ovvero almeno il 51% di tale reddito deve restare assegnato all’imprenditore.

Mentre l’unico responsabile delle perdite, come prevede anche la normativa civilistica, è il titolare dell’impresa familiare.

Infine va ricordato che condizione essenziale per assegnare il reddito d’impresa ai familiari è che prima dell’inizio del periodo d’imposta sia stipulato un atto pubblico o una scrittura privata autenticata da cui risulti il nome di tutti i collaboratori, firmato da questi ultimi e dall’imprenditore.

 
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